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BLOG - Il baritono secondo Giuseppe Verdi: viaggio attraverso le tre età del canto drammatico

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di Graziano D'Urso

 

 

Nel vasto universo delle opere di Giuseppe Verdi, c’è una figura vocale che si staglia su tutte per potenza espressiva, profondità emotiva e versatilità drammatica: il baritono. Ma chi è davvero il baritono verdiano? E, soprattutto, come cambia nel tempo il modo in cui Verdi lo concepisce, lo costruisce e lo affida alla voce e all’anima dei suoi interpreti?

Il primo Verdi: la genesi di un archetipo vocale

Iniziamo dall’inizio, là dove Verdi, ancora giovane e inesperto, cerca un’identità drammatica per il suo baritono. Il primo tentativo concreto è affidato al Cavaliere di Belfiore in Un giorno di regno (1840), personaggio buffo, sfuggente, più legato alla tradizione rossiniana che al dramma verdiano che prenderà forma più avanti. Belfiore è un uomo che si muove tra due mondi: quello della commedia e quello della solennità. Ma, alla prova dei fatti, risulta un personaggio formalmente centrale ma drammaticamente evanescente. Il baritono è ancora, in Verdi, una voce in cerca d’autore.

Tutto cambia con Nabucco (1842). Qui, il baritono non solo assume un ruolo principale, ma diventa protagonista assoluto. La scrittura per Nabucco, pensata per Giorgio Ronconi, impone un primo vero salto di qualità: la voce del baritono si fa drammatica, profonda, carica di tensione e pathos. Il personaggio è scolpito a colpi di frasi musicali nette, aggressive, quasi scolpite nella roccia. Ma è con Don Carlo in Ernani (1844) che Verdi compie la svolta decisiva. In questo ruolo, il baritono diventa la vera incarnazione del potere, della seduzione, del conflitto interiore. Un personaggio che vibra tra nobiltà e furore, tra l’ombra e la luce. È qui che nasce, pienamente, il "baritono verdiano" in senso stretto: voce nobile, duttile, capace di dominare la scena tanto nei recitativi quanto nelle ampie arcate melodiche.

Questa linea evolutiva si precisa ulteriormente con Francesco Foscari ne I due Foscari (1844), personaggio anziano e dolorosamente umano, che sovverte l’idea di potenza baritonale associandola alla fragilità e al senso di sconfitta. Verdi, in questo caso, cesella un personaggio che non urla la sua autorità, ma la soffre. È un baritono "nobile", lontano dalle smanie di potere: più padre che uomo di stato, più uomo che simbolo.

E poi c’è Giacomo in Giovanna d’Arco (1845), figura ambigua e tormentata, che rappresenta l’antieroe baritonale. Il suo conflitto interiore, tra amore paterno e fanatismo religioso, viene scolpito in una scrittura vocale spesso instabile, tesa, drammaticamente frantumata. La voce non è più soltanto veicolo di potenza, ma di tormento e ambiguità morale.

Infine, in questa prima fase compositiva, emerge con forza la figura di Ezio in Attila (1846), dove il baritono acquista le caratteristiche definitive dell’eroe verdiano: impeto, orgoglio, energia teatrale. In Ezio tutto è pensato per esaltare la forza della voce baritonale come motore dell’azione. È qui che Verdi sfida definitivamente le convenzioni precedenti, costruendo duetti e cabalette in cui la voce maschile centrale non è né basso né tenore, ma un baritono capace di imporsi con virilità e slancio patriottico.

In queste opere giovanili, si assiste dunque alla graduale costruzione di un linguaggio vocale e drammatico nuovo. Verdi scopre nel baritono lo strumento perfetto per esprimere i conflitti morali più laceranti, i contrasti politici più feroci, le ombre più profonde dell’animo umano. È una voce che nasce come comprimaria, passa attraverso la maschera del buffo, si impone come forza drammatica in Nabucco, esplode in potenza tragica in Don Carlo, si sfuma in pathos paterno nei Foscari, per infine condensarsi in un’energia scenica totale in Ezio.

In questo percorso, Verdi non solo dà dignità nuova alla vocalità baritonale, ma la eleva a fulcro dell’azione scenica, facendone il punto di partenza per definire l’intera architettura emotiva delle sue opere. Il baritono non è più il semplice antagonista del tenore o l’ombra del basso, ma il vero cuore pulsante del teatro verdiano.

Tra potenza e compassione: il baritono verdiano al culmine della sua forza drammatica

Con l’arrivo degli anni Cinquanta, Giuseppe Verdi entra in una fase creativa dove il suo teatro si fa più profondo, più articolato, più umano. È il periodo delle grandi opere della maturità centrale, in cui il baritono non è solo voce virile o autorità granitica, ma un personaggio a tutto tondo, spesso protagonista del dramma, portatore di un’umanità ricca e contraddittoria. È qui che l’archetipo del “baritono verdiano” si perfeziona.

Pensiamo a Rigoletto (1851), punto di svolta assoluto: il buffone di corte, storpio e malinconico, diventa la più tragica delle creature, padre disperato e vendicatore. Mai prima d’ora un baritono aveva avuto un tale carico emotivo, una tale profondità psicologica. La scrittura vocale si fa tormentata, frantumata, riflesso diretto dell’anima spezzata di Rigoletto. È un baritono che urla, piange, implora, ride: è il teatro umano nella sua forma più nuda.

Con Il Trovatore (1853), Verdi offre un baritono diverso ma altrettanto emblematico: il Conte di Luna, feroce e passionale, vittima anch’egli di un amore impossibile e di un destino che lo divora. In questo ruolo, la voce si fa scura, fiera, minacciosa, ma capace anche di intima dolcezza. È la dimostrazione di quanto Verdi fosse ormai maestro nel far convivere opposti drammatici all’interno di uno stesso personaggio.

Giorgio Germont ne La Traviata (1853), invece, rappresenta il baritono della tradizione, il padre borghese, autorevole ma anche – e soprattutto – capace di redimersi. Nella sua musica convivono l’inflessibilità dell’autorità e il calore umano di chi comprende il dolore dell’altro. Il duetto con Violetta resta uno dei momenti più alti della scrittura verdiana per voce baritonale, in cui l’espressività non nasce dalla forza, ma dalla misura, dalla tenerezza trattenuta.

Simon Boccanegra (1857), Doge malinconico e diviso tra politica e affetti, porta la figura del baritono a un livello quasi shakespeariano. Verdi gli affida un’umanità vasta, fatta di ombre e bagliori, di potere e rimpianto. La voce non è più solo veicolo di forza, ma si plasma con le pieghe dell’animo. È un baritono che sussurra più che imporsi, che soffre più che minaccia.

In questa fase, il baritono verdiano raggiunge la piena maturità. Verdi lo usa per raccontare la caduta, la colpa, il riscatto. Le sue linee vocali non sono mai neutre: sono ferite sonore, sono confessioni. La scrittura musicale si avvicina sempre più al parlato, non per svilirsi, ma per diventare pura drammaturgia. In queste opere, il baritono non è mai solo voce: è carne, è spirito, è coscienza.

Il baritono nel Verdi degli estremi: tra abisso e ironia, il canto dell’ultimo eroe

Con la tarda maturità, Giuseppe Verdi non si limita più a raccontare il mondo: lo giudica, lo osserva dall’alto, con la saggezza di chi ha detto tutto e ora sceglie ogni parola. Anche il baritono, in questa fase estrema, cambia volto. Non è più solo colui che agisce, ma colui che riflette, che elabora, che soffre e si redime, o che si lascia inghiottire dal proprio destino. La voce, densa e colma di memoria, non è più il mezzo per affermarsi, ma per lasciare un segno.

In Don Carlos (1867), Verdi crea con il Marchese di Posa uno dei suoi baritoni più nobili, politicamente idealista e poeticamente tragico. Posa è un uomo di pensiero, non di forza; la sua voce è uno strumento morale, che persuade, ammonisce, conforta. Non cerca potere, ma verità. In un mondo corrotto e oscuro, è l’unico a brillare per coerenza e sacrificio.

Poi arriva Amonasro in Aida (1871), re in incognito, padre dolente, combattente piegato dal destino. In lui si uniscono forza primordiale e tenerezza istintiva. È un baritono che urla nel deserto e piange in silenzio, specchio di un Verdi che guarda all’Oriente e all’esotico per riflettere sul dolore universale.

Ma è con Jago in Otello (1887) che il baritono torna a farsi puro male. È il più diabolico dei baritoni verdiani: non urla mai, sussurra. Il suo canto è veleno, la sua voce è una lama sottile. Verdi lo costruisce con la sapienza del drammaturgo maturo: Jago non esplode, penetra. È il male che si insinua, che conquista per intelligenza, che trionfa nel silenzio. Un baritono spietato, ma straordinariamente teatrale.

E infine, Falstaff (1893): il ritorno alla commedia, ma con una consapevolezza nuova. Verdi, ormai ottantenne, affida al suo ultimo baritono un compito supremo: ridere della vita, ma con intelligenza. Sir John Falstaff è buffo, certo, ma anche tragico, ironico, malinconico. La voce qui non è più peso, ma leggerezza. Un baritono che non domina, ma gioca, si prende gioco del mondo e di se stesso.

Nel suo ultimo Verdi, il baritono si fa icona, maschera, sintesi. È il frutto di un percorso artistico e umano, e allo stesso tempo il simbolo di una visione del mondo. Dalla furia di Rigoletto all’ironia di Falstaff, passando per la saggezza di Boccanegra e la crudeltà di Jago, il baritono verdiano si offre come specchio dell’animo umano in tutte le sue contraddizioni. Verdi, come un grande scultore, lo ha plasmato con la materia del suono e con la forza della parola, lasciandoci un monumento alla complessità dell’uomo.

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