di Graziano D'Urso
Parlare del baritono nelle opere di Verdi significa entrare in un territorio affascinante e complesso, in cui il canto si intreccia con il gesto, la voce con lo sguardo, la parola con il movimento scenico. Troppo spesso ci si concentra solo sull’aspetto vocale, dimenticando che quei personaggi sono stati concepiti per vivere sul palcoscenico con una gestualità precisa, codificata, in grado di restituire al pubblico la loro essenza più profonda. Ecco perché le antiche disposizioni sceniche – quelle vere e proprie “istruzioni per l’uso” che i direttori di scena fornivano ai cantanti – rappresentano una chiave di lettura preziosa e sorprendente.
Attraverso questi documenti, ci è dato conoscere la regia nascosta che governava i grandi baritoni verdiani. Non semplici pose o movimenti di maniera, ma atteggiamenti interiori tradotti in azione, specchio di emozioni già scolpite nella musica. Si scopre così che il baritono verdiano non è mai un personaggio monolitico, bensì una creatura complessa, che respira e si muove secondo un disegno teatrale ben preciso.
Basti pensare al Vasconcello della Giovanna de Guzman, versione censurata delle Vespri Siciliani. Qui il governatore non è solo un uomo di potere: lo si vede dominare la scena dall’alto dei gradini del palazzo, il suo sguardo è calmo e autorevole, e perfino nei momenti di tensione non si lascia mai travolgere dalla collera. È il segno di un comando interiore, di una forza che non ha bisogno di gesti eccessivi per imporsi. La musica suggerisce la sua autorevolezza, e la regia lo traduce in passi lenti, gesti misurati, atteggiamenti quasi solenni.
Diverso è il caso di Renato in Un ballo in maschera. Qui il baritono non è figura statica, ma un uomo divorato dal dubbio, dal tradimento, dalla passione ferita. Le disposizioni sceniche ce lo mostrano nell’atto di proteggere Riccardo, di coprirlo con il mantello per salvarlo, e poco dopo di inseguirlo, brandendo la spada con furia. In lui convivono affetto, lealtà, sospetto, ira, vendetta. Ogni movimento è una frattura, un segnale di un’anima lacerata, e la musica stessa ne amplifica l’oscillazione continua.
Quando ci spostiamo a La forza del destino, il panorama si arricchisce ulteriormente. Il baritono diventa Don Carlo, giovane ardente, ossessionato dall’onore e dalla vendetta. Ogni gesto è impetuoso, ogni parola si accompagna a un passo deciso o a un’esclamazione veemente. Accanto a lui compare Fra Melitone, baritono comico e popolaresco, che con la sua caricatura movimenta la scena e offre un contrappunto ironico. Qui Verdi dimostra quanto il baritono sia flessibile: da una parte eroe tragico, dall’altra figura buffa e caricaturale, ma sempre centrale nell’equilibrio drammaturgico dell’opera.
Il quadro cambia di nuovo con Rodrigo nel Don Carlo. Egli non è più solo un uomo, ma un ideale incarnato: la lealtà, la purezza, il sacrificio. La regia ce lo mostra sempre vicino al protagonista, pronto a sostenerlo, a guidarlo, a morire per lui. Ogni suo gesto è misura, affetto, fermezza: mai un eccesso, mai un’esplosione incontrollata. La sua morte non è solo un colpo di scena, ma il culmine di un percorso coerente, che dalla musica trapassa alla scena con la stessa intensità.
Con Amonasro nell’Aida entriamo invece nel regno della forza bruta, della passione impetuosa, del patriottismo feroce. Qui la regia prescrive movimenti rapidi, gesti violenti, scatti improvvisi: Amonasro afferra, strattona, urla, quasi travolge chi gli è intorno. È un re sconfitto, ma non domo, e il suo corpo diventa lo strumento stesso della sua ribellione. La musica di Verdi, possente e scura, trova rispondenza in questa fisicità esasperata.
Il Simon Boccanegra ci consegna un altro volto del baritono verdiano: quello del potere stanco, della maestà piegata dalla solitudine e dal dolore. Le disposizioni sceniche mostrano un uomo che entra in scena pensieroso, che si lascia andare a momenti di accasciamento, che vacilla sotto il peso delle proprie visioni. Ma allo stesso tempo il Doge sa imporsi con un gesto, con una parola, con un comando che non lascia scampo. È un personaggio che racchiude in sé la nobiltà e la fragilità, e che richiede all’interprete una profondità attoriale pari a quella vocale.
Infine, Jago in Otello. Qui la regia diventa sottile, velenosa, insinuante. Arrigo Boito lo descrive come un uomo, non un demone: giovane, affascinante, credibile, proprio per questo tanto più pericoloso. I suoi gesti non devono mai sembrare eccessivi: un sorriso, una stretta di mano, una parola sussurrata bastano a tessere la sua tela di inganni. È il baritono che incarna il male allo stato puro, ma con sembianze ingannevolmente umane, e forse proprio per questo il più inquietante di tutti.
Guardare a queste disposizioni sceniche significa capire che Verdi non pensava solo in termini musicali. Il suo teatro era totale, un intreccio di suono, gesto e parola. Il baritono verdiano ne emerge come protagonista assoluto, colui che porta sulle spalle il peso del dramma, che plasma la scena con la voce e con il corpo, che diventa simbolo dell’uomo nelle sue infinite sfaccettature.
Questo sguardo “registico” non toglie nulla al fascino del canto, ma lo esalta, lo completa, ci fa comprendere quanto fosse ricco e consapevole l’universo teatrale verdiano. E restituisce al baritono il posto che gli spetta: non semplice comprimario del tenore o antagonista di comodo, ma cuore pulsante della drammaturgia.
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